giovedì 24 febbraio 2011

127 ore di Danny Boyle


127 ore e’ il tempo che il protagonista passa intrappolato nella cavita’ di un canyon. Il film racconta James Franco nei suoi tentativi di liberarsi, nei suoi tormenti interiori, tutto in bilico tra pazzia e visionarieta’.
Nonostante la storia si svolga in un spazio ristretto riesce ad essere dinamico e ricco d’invenzioni visive che danno un buon ritmo al film. L’inizio tra splits creen e montaggio veloce riesce a raccontarci il protagonista e ci fa subito capire che tipo di persona e’.
Il film corre molto all’inizio e quando arriva la caduta si stoppa. La caduta tra l’altro nel piu’ classico meccanismo della suspense sembra sempre imminente ma quando acccade l’effetto sorpresa e’ garantito. Da li’ in poi la storia e' tutta da vedere e le soluzioni di Danny Boyle per intrattenerci sono molteplici soprattutto grazie ad un ottimo utilizzo della musica e degli effetti sonori. E’ interessante anche l’uso dell’immagine, una delle protagoniste del film tra fotografie e riprese video. Ci sono poi scene molto cruente che ti costringono ogni tanto a distogliere lo sguardo dallo schermo. James Franco in tutto questo e’ molto bravo a sostenere il film quasi interamente da solo e in alcune scene e’ veramente notevole anche quando emerge il lato piu’ grottesco e surreale del film.
127 ore e’ un film che dietro alcuni virtuosismi registici (che possono risultare anche un po' furbetti) e una messa in scena claustrofobica racconta molto il protagonista e va a fondo. Senza mai essere didascalico il film tra visioni e immagini registrate ci dice quasi tutto sul passato del protagonista, anche che probabilmente nulla e’ accaduto per caso. E’ proprio questo il maggior pregio del film, non solo soluzioni acchiappa pubblico ma una storia dove il personaggio e’ raccontato a fondo. Non sara’ di certo un capolavoro ma il film e’ compatto e per niente vuoto di significato. Il finale non e’ all’altezza delle premesse, peccato perche’ lentamente il fuoco acceso della storia si spegne.  



lunedì 14 febbraio 2011

Il discorso del re di Tom Hooper

Questa volta sono andato in sala convinto di vedere un bel film ma diciamo che il mio ottimismo e' andato oltre le aspettative, ma cominciamo dal principio.
Il Discorso del Re racconta la storia dell'ascesa al trono di Giorgio VI dopo l'abdicazione del fratello a causa di un matrimonio a cui non poteva rinunciare neanche per il trono d'Inghilterra. La storia pero' va oltre la storia con la S maiuscola e ci racconta la difficolta' del principe/re che non riesce a sostenere dei discorsi pubblici perche' e' balbuziente. Giorgio VI incontrera' un logopedista, un attore fallito che lo aiutera' a superare il problema e non solo, lo aiutera' ad acquistare la fiducia in se stesso.
Da dove cominciare per elogiare questo film? Be' direi da quello che mi aspettavo. Mi aspettavo di trovare degli ottimi attori e la mia aspettativa e' stata confermata e superata. Colin Firth, Helena Bonham Carter, Geoffrey Rush sono verament fantastici. Il primo e' strepitoso e vorrei vedere il film il lingua originale per apprezzare la sua recitazione che nonostante il doppiaggio fa emergere la sua mimica e le sue difficolta' nel parlare, sapevo che era bravo ma qui e' una rivelazione. Geoffrey Rush nei panni del logopedista e' bravissimo e bellissima la sua interpretazione dell'australiano emigrato innamorato della cultura inglese. Poi c'e' Helena Bonham Carter che con la sua interpretazione della Regina Madre mi convince del tutto, finora l'ho sempre trovata brava ma sempre un po' sopra le righe, invece qui e' misurata e pienamente nel ruolo.
Altro punto di forza di questo film sono stati i dialoghi: brillanti, intensi e mai banali. Riescono a sdramatizzare alcune situazione e riescono a colpire laddove l'azione dei personaggi deve subire un cambiamento. Tutto in stile molto british.
La storia e' veramente ben narrata e mi e' piaciuto molto l'incontro che diventa amicizia tra due classi sociale, quella del re e del logopedista. Il Re deve essere un attore, come dice il padre Giorgio V al figlio, e proprio un attore fallito risolvera' i problemi di balbuzie di Giorgio VI, un attore fallito australiano e amante di Shakespeare. Tutta la storia e' tesa verso un finale drammatico e intenso ma senza far sembrare tutta la storia un lungo preambolo.


Tutto questo insieme ad una bellissima fotografia un po' me lo aspettavo anche se mi ha favorevolmente colpito ma quello che mi ha stupito del film e' la regia. Ci si aspetta una regia misurata, standard invece ti trovi delle bellissime inquadratura e una composizione dell'immagine che regala piacere agli occhi. Nei dialoghi le soluzioni di campo e controcampo sono sempre non prevedibili e molto spesso costruiscono l'immagine in modo atipico, tra tutti un dialogo tra Geoffrey Rush e la moglie. Un'altra scena da ricordare e' quella della discussione tra Colin Firth e Geoffrey Rush: una passeggiata nella nebbia dove il movimento degli attori e della telecamera ti buttano nel mezzo dell'azione e dei sentimenti. Poi c'e' la scena iniziale dove si respira tutto la paura e l'ansia di prestazione del Re di fronte ad un discorso pubblico. Il re e la moglie che aspettano ai piedi delle scale, lui che sale verso il microfono e le facce dei presenti quando lui non riesce a proferire parola.
Un gran bel film intenso e divertente che mi fa pensare ancora una volta che Hollywood e la produzione anglosassone sono un passo piu' in la' perche' riescono a confezionare film di qualita' senza scadere nella lentezza e nei sussurri di certo cinema italiano.