giovedì 28 febbraio 2008

Non è un paese per vecchi di Ethan e Joel Coen

C'è un aspetto dell'ultimo film dei Coen che mi ha colpito molto: la musica. Anzi dovrei dire l'assenza di musica, l'assenza di una colonna sonora. Questo particolare mi ha fatto riflettere su due aspetti. Senza la musica è come se il regista fosse solo con le sue immagini, con i suoi movimenti di macchina, con le sue inquadrature. Non ha il supporto della musica che spesso crea il film, crea la suspense e le emozioni. I Coen hanno scelto di eliminarla e il risultato è un film che ha una regia da manuale. Tutto è creato solo attraverso l'immagine.
Il confronto che mi viene in mente è con La Sconosciuta di Tornatore. Ovviamente sono due film completamente diversi ma il ruolo della musica nel film italiano è centrale. In questo film la colonna sonora di Morricone è il film. La regia di Tornatore segue le note della musica, si accompagna con le note per costruire gli effettivi emotivi e di suspense del film. Lo stesso regista ha ammesso che la colonna sonora accomppagnava le riprese. Due modi di vedere un film, due modi di concepire la regia e due modi di utilizzare o non utilizzare la musica.
Tornando al film dei Coen l'assenza di musica mi ha portato ad un distacco maggiore. C'era attenzione nei confronti della storia, c'era coinvolgimento ma è come se il giudizio fosse ad un livello non emotivo ma cerebrale. Questa sensazione l'ho provata sempre guardando i film dei fratelli Coen. In Non è un paese per vecchi togliendo la musica viene tolta, a mio parere, l'ultimo legame con l'emozione. L'astrazione è completata. Il risultato è duro. La violenza è mitigata a tratti dall'ironia ma rimane una storia dove l'uomo è sempre comunque una vittima.
E' un film americano. E' un film dal sapore western, dove gli uomini sono sulla frontiera, sul confine non solo geografico. Alle prese con scelte che possono da un momento all'altro cambiare la vita. Dove può essere il caso o la fortuna a decidere i destini. Gli uomini sono soli al mondo e la vecchiaia con le sue riflessioni sull'esistenza diventa un ostacolo per la sopravvivenza quindi meglio andare in pensione piuttosto che continuare a lottare. L'America non è un paese per quei vecchi che si pongono domande e che vorrebbero continuare a lottare, non è un paese per loro perché in questo mondo western esiste solo la violenza e la ricerca della sopravvivenza.

venerdì 22 febbraio 2008

Laico, se lo conosci lo eviti, se non lo conosci è meglio

Un video per chiudere la settimana con una grande Paola Cortellesi.


mercoledì 20 febbraio 2008

Gregory Crewdson al Palazzo delle Esposizioni

Si entra nell'allestimento della mostra fotografica di Gregory Crewdson al Palazzo delle Esposizioni e l'immersione nelle foto è immediata. Mi è piaciuto l'allestimento di questa mostra perché la luce permette di godersi in pieno le foto senza strani riflessi e perché lo spazio delle foto è arioso ma avvolgente.
Il primo pensiero vedendo le fotografia di Gregory Crewdson è Lynch non c'è dubbio. C'è quel sapore surreale e macabro, c'è quel senso di sospensione e una certa angoscia dietro l'angolo. Crewdson è un fotografo "cinematografico" e questo viene sottolineato fin dalle note che accompagnano la mostra. Un fotografo che mette in scene le sue foto, costruite e sceneggiate ma non per questo meno d'impatto, meno coinvolgenti. Questo mettere in scena, tipico anche di altri fotografi americani come Cindy Sherman, è una costruzione che svela gli stereotipi, li rende evidenti e li rende amari. Una messa in scena che rende ancora più immobili le foto, istantanee che fissano un momento come se dovesse durare un'eternità, dopotutto lo stereotipo è anche questo.
Il gioco viene reso ancora più evidente nella serie di foto Dream House con le stelle del cinema. Dalle note che accompagnano la sezione si legge infatti: "La presenza di queste star trasforma le falsità delle scene di Crewdson nell'autenticità del cinema, che è a sua volta opera d'arte artificiosamente costruita".



Le persone sono abbandonate negli scenari di Crewdson, sono perse. Hanno perso i loro riferimenti. Rimangono solo alcune tracce di questa umanità disperata, chiusi nelle loro auto, circondati da psicofarmaci e macchie della loro vergogna. Non sono moraliste queste foto ma sono critiche nei confronti della società americana. Sono immagini ricche di preoccupazione per l'umanità che viene rappresentata. Sono spietate. E' un'America al crepuscolo. La luce del giorno è sempre poco presente e se c'è è filtrata dalle finestre o dal bianco e nero della pellicola.


Gregory Crewdson è un'artista americano e si vede. Sembra che ci sia poco di europeo. C'è il tradimento del sogno americano. Case come prigioni, luoghi surreali ricchi di risentimento e rimorsi. La normalità artificiale è svelata.
Le foto di questa mostra mi hanno pensare anche ad Edward Hopper. In Hopper l'elemento dominante della scena è molto spesso l'attesa. Donne e uomini in attesa che qualcosa succeda, speranza verso il futuro. Nelle fotografie di Crewdson invece c'è qualcosa di post, qualcosa è accaduto prima dell'istantanea. E' come se tra le istantanee di Hopper e Crewdson fosse avvenuto qualcosa, qualcosa che ha avuto effetti devastani sull'umanità. L'aspetto surreale è che c'è calma sia prima che dopo. La tensione è assente, come la speranza.

lunedì 18 febbraio 2008

Children of Men


Il mondo è sterile, è allo sbando. La violenza e l'odio razziale hanno preso il sopravvento. Gli immigrati clandestini vengono trattati come bestie. L'ultimo bambino nato risale a 18 anni prima. Non ci sono più bambini, non ci sono più parchi giochi e asili. Un ex attivista politico si trova a proteggere la vita dell'unica donna incinta.

Il film è tratto da un romanzo di P.D. James ed è ha una storia affascinante che si confronta con il futuro poco lontano dell'anno 2027, con un immaginario che ha poco di fantascienza e fantapolitica perché sembra tutto così vicino, così prossimo ai nostri occhi. L'aspetto più interessante del film è questo, ritrarre un futuro prossimo che fa paura, un futuro dove tutto è alla deriva, un mondo agghiacciante. Gli immigrati nelle gabbie, gli scontri di periferia e il solito strapotere dei media. Un futuro/presente insomma.

Il regista Alfonso Cuaron ritrae il tutto senza cercare troppo il coinvolgimento emotivo, senza approfondire e realizzare un'analisi sociopolitica che poteva essere interessante. La narrazione è discontinua e nonostante non manchino dei frammenti meglio riusciti, il tutto è slegato. Il film è godibile ma mi ha dato l'idea di essere superficiale, come se fosse scritto con i freni tirati.

Un materiale così interessante poteva in mani più coraggiose diventare un film di un certo livello, un film amaro, cinico e doloroso. Quando un film non piace del tutto si cerca sempre di capire quale poteva essere il modo per renderlo migliore. In questo caso direi che si potevano seguire due strade: quella del cinismo, ritrarre quindi in modo freddo e distaccato un mondo alla deriva e quella dell'emozione, cercando un coinvolgimento maggiore dello spettatore nella storia.

martedì 12 febbraio 2008

Into the Wild di Sean Penn


Natura accogliente e ostile. Sentimenti sinceri e artificiali. Parole scritte e narrate. Into the Wild è un film che parla di emozioni e che riesce a comunicarle allo spettatore in modo straordinario. E' un film dolce e duro, un racconto di libertà e amore.

Il protagonista è alla ricerca di se stesso e intraprende in modo ostinato un viaggio per trovarsi e per misurarsi. Una trama di questo tipo potrebbe sembrare banale ma non lo è, perché nonostante l'avventura di Alex/Chris sia raccontata in modo coinvolgente ne riusciamo comunque a cogliere i difetti, le incertezze. Riusciamo a comprendere che in fondo parte delle motivazioni che spingono il protagonista a partire sono dovute al rancore, sono dovute alla mancanza di sentimenti reali. Alex/Chris ha paura dei sentimenti dopotutto e li sottovaluta. Crede probabilmente troppo in se stesso e nelle sue capacità e alla fine si rende conto di quanto sia importante la presenza delle persone. Il racconto alla fine diventa un racconto sulla scoperta dei sentimenti dove il protagonista scopre di saper condividere la propria vita e la propria soggettività con le persone più diverse. Sono dolcissimi gli adii in questo film, adii pieni di emozione ma con poche lacrime, pochi abbracci.

Into the Wild è un film che attraverso la riscoperta della natura ci racconta la riscoperta delle persone e l'importanza di saperle ascoltare, apprezzare e amare. Una strada difficile da seguire perché siamo distratti e diffidenti. La natura e le terre selvagge sono solo un pretesto, un racconto che vuole dire altro sulla nostra contemporaneità. In modo discreto e metaforico questo film scuote moltissimo.

sabato 9 febbraio 2008

"The Black Saint and The Sinner Lady"


Avevo deciso di acquistare un cd jazz. Vado da Feltrinelli armato di una short list: Eric Dolphy Out of Lunch, Wayne Shorter Juju, Charles Mingus The Black Saint and The Sinner Lady. La scelta si era ristretta a questi tre nomi e titoli perché volevo sondare ancora novità nel panorama classico del Jazz. Di Dolphy mi affascina il suo polistrumentismo e il fatto che troppo spesso ho incontrato il suo nome nelle mie ricerche e letture. Di Shorter ovviamente è il suo sax, troppo legato a Coltrane per passare inosservato. Di Mingus mi incuriosice la sua personalità e il fatto che ogni suo frammento di musica che ho ascoltato mi ha rapito. Come al solito il mio personale "studio" del Jazz è guidato da strane sensazioni e impressioni. E' un puzzle guidato dalla mancanza di conoscenza teorica ma ricco della volontà di assaporare in pieno la musica.
Vorrei ascoltare tutti e 3 ma purtroppo il primo non c'è e decido di ascoltare dei frammenti degli altri 2. Forse è contrario allo spirito dell'ascoltare attento ma ascolto la loro musica sulle cuffie del negozio e mentre Shorter è coinvolgente Mingus mi rapisce e non mi fa avere dubbi.
A casa inizio ad ascoltare il disco e vengo travolto. La musica, che ancora suona nella mie orecchie, è qualcosa di straordinario. Parte dalla tradizione delle Big Band ma va oltre ed è come se racchiudesse tutto. Ogni volta vengo stupito dalla richezza della musica, di quanto possa aver detto molto così tanto tempo fa, di come le radici e le tradizioni siano rielaborate continuamente e siano dei punti di partenza per viaggi verso il futuro. L'energia dei suoni è qualcosa di indescrivibile a parole. E' amore a primo ascolto. Come al solito mi ci vorranno diversi ascolti per assaporarlo tutto e in pieno poiché la musica è ricca, è piena, in alcuni momenti è satura di suoni.
Bene sono soddisfatto, il mio istinto da inesperto non mi ha tradito, di nuovo aggiungerei. A questo punto devo cominciare a pensare che forse è giusto così. Segui l'istinto e costruisci il tuo puzzle musicale e vedrai che ogni momento di ascolto sarà soddisfacente.

"Touch my beloved's thought while her world's affluence crumbles at my feet." Dalla copertina del disco.

martedì 5 febbraio 2008

Herbert List: Lo sguardo sulla bellezza

La pioggia, il raffreddore e la cattiva illuminazione della mostra non mi hanno permesso di godermi al meglio la mostra di Herbert List ai musei capitolini ma nonostante questo sono diversi gli spunti che ne ho tratto.
L'aspetto che più mi è piaciuto della mostra, un po' avara di fotografie, è stata la possibilità di avere una visione generale della vita fotografica di Herbert List. L'impressione che mi ha dato è stata quella di un fotografo dalle facili infatuazioni. Dalla fotografia surrealista, alla foto che ricorda il patinato pubblicitario. Dal reportage neoralista ai ritratti.
Sono affascinanti i suoi giochi surrealisti, dove porta in fotografia le suggestioni di De Chirico e Magritte. Dove la luce gioca con gli oggetti e le ombre costruiscono il mistero. Sono decisamente poco affascinanti ai miei occhi le fotografie del periodo di Capri e quelle marittime in genere. Sono interessanti perché sembra di vedere alcune foto pubblicitarie contemporanee ma appunto per questo eccessivamente costruite con pose e luci un po' artificiali. Certo sono all'avanguardia per l'epoca.
Le foto più interessanti sono i ritratti che come sempre si misurano con le personalità raffigurate: Pasolini, Marlene Dietrich, Benedetto Croce e la fantastica Anna Magnani, ritratta in modo da far emergere in pieno il suo volto deciso.
Un'altra serie di foto interessanti sono quelle più neorealiste che ritraggono Roma e Napoli. Che svelano le persone e la loro quotidianità. Si parla quindi del reportage più puro non a caso corrispondente agli anni dell'incontro di Robert Capa e della Magnum.
Per un romano le foto di Trastevere sono imperdibili, com'è imperdibile il reportage sulla Stazione Termini vero cuore romano. Un abitante silenzioso della città, dove anime e persone ogni giorno s'incontrano e si scontrano. Bellissime le foto degli adii e degli incontri. Quei fuggevoli incontri tra sconosciuti che si sfiorano per un solo attimo nella loro vita ma che condivono comunque un istante.
Una mostra che merita di essere vista ma che non mi ha soddisfatto in pieno. Le foto infatti a volte si perdono in un'artificiosità che non ha soddisfatto il mio sguardo.

lunedì 4 febbraio 2008

American Gangster di Ridley Scott

American Gangster è un film piacevole da vedere. La storia scorre liscia, senza troppi intoppi. La lunghezza non si avverte. L'unico problema del film è che scivola troppo via e lascia poco. Non entusiasma, non emoziona. Scorre e non rimane.
La storia è raccontata in modo abbastanza convenzionale. E' il racconto parallelo del gangster che si fa strada nella criminalità di New York e del poliziotto la cui "eccessiva" onestà irrita anche i suoi stessi colleghi tutti corrotti. La narrazione parallela delle due vite è decisamente male assortita perché se la storia del gangster Denzel Washington è interessante, quella del poliziotto Russel Crowe è ricca di luoghi comuni, di banalità e di cose già viste. Il personsaggio del poliziotto è privo di appeal, privo di spessore, la sua storia è la parte più debole del film.
Non ci sono interessanti soluzioni di regia e messa in scena in questo film di Ridley Scott. Non ci sono guizzi. C'è una buona gestione ma niente di più. Manca la personalità in questo film e non posso fare a meno di pensare a Scorsese e a Spike Lee. Mi aspettavo qualcosa di più da Ridley Scott devo dirlo onestamente, ma comincio a pensare che ormai la qualità di questo regista si limita a quei pochi risultati felici della sua carriera e non regala più molto di nuovo allo spettatore.